Arrivato il mio turno, quando vidi la faccia del medico, mi rasserenai. Era un amico d’infanzia.
Gli spiego il problema. Ascolta, mi visita, sorride. Mi tranquillizza.
«Prego, si accomodi fuori» Mi esorta l’infermiera. «Ora attendiamo il cardiologo e poi vediamo».
Abbasso la manica e mi accorgo che un tubetto di plastica, veniva fuori dal braccio.
«Ha dimenticato di togliermi questo!» Le dico inorridito. La vista del sangue, all’interno della cannula, mi stava già agitando.
«Quello lo togliamo, quando andrà via» Mi spiega lei, sorridendo alla mia ingenuità.
«Capisco. Mi chiamate voi?» Chiedo per conferma
«Certo, stia tranquillo»
Mi affaccio. La sala d’attesa era piccola e dentro c’era una sola paziente. In quella stanza tutta bianca, la sua pelle ambrata, risaltava come caramello sulla panna, occupandone il centro. Seduta su di una carrozzella, col volto sofferente ma composto, teneva gli occhi scuri, fissi su di un punto immaginario davanti a lei. Tra il vano libero della porta e l’infinito.
Entro, accenno ad un saluto, lei non si scompone. Rimane immobile, come una statua di cera. Poteva almeno rispondere. Penso, mentre mi accomodo a lato, su una sedia di resina grigia. Ora la vedo di profilo e noto subito quel filo bianco che le scende dall’orecchio, per perdersi tra le pieghe della camicetta. Anche quella bianca. Che idiota che sono! Per forza non mi ha sentito! Mi vergogno di aver pensato male di lei e la guardo meglio. I capelli neri e setosi, divisi sulla fronte si riunivano sulla nuca in una coda che ricadeva fluente oltre lo schienale. Il neon bianco della plafoniera mi restituisce il loro riflesso lucente.
Ad un tratto, un’infermiera fa capolino dalla porta e le chiede qualcosa, senza ottenere risposta. Si avvicina, le parla veloce. Lei alza appena il capo e stringe il viso in una smorfia. É in difficoltà e la donna vestita di verde lo percepisce. Si fa più dolce, le chiede che lingua parli, ma non ottiene nulla di più. Apre la porta dell’inferno e cerca un parente della giovane. Si fa avanti un uomo giovane, sulla trentina, coi capelli neri e lucenti come i suoi, ma corti. Parla con l’infermiera e poi viene dentro la saletta.
Capisco che sono in grande intimità da come lui la guarda. Le si siede accanto, su una seggiola uguale alla mia, e si protende in avanti. Le prende la mani, le stringe nelle sue. Si avvicina con la testa, le parla e con una mano prende ad accarezzarle i capelli. Continuerà a farlo per tutto il tempo, tra un silenzio e un sussurro. Senza che lei accenni alla pur minima emozione.
Una voce mi chiama. Mi alzo e mi precipito nel corridoio. Cerco di capire dove devo andare. Una donna anziana parcheggiata su una barella, ha il piede sinistro completamente sbandato sul lato interno. Immagino che si sia rotta il femore. Lancia urla strazianti e si lamenta. La supero, entro in una stanza.
«Mi ha chiamato lei?»
«Si accomodi sul lettino e si alzi la maglia» Mi intima, senza rispondermi.
Mi visita con scrupolo, mi interroga, tasta, ausculta. Misura nuovamente la pressione, poi mi sbatte sul petto il terminale dell’ecografo e guarda.
«Non è nulla di preoccupante» Sentenzia «Sono extrasistole ventricolari. Stia tranquillo»
La ringrazio, saluto e ritorno nella sala d’attesa a prendere lo zainetto e il giubbotto.
I due sono ancora lì. Lui le parla dolce e continua ad accarezzarle i capelli.
«Quando vi sposate?» Faccio io per rompere il ghiaccio
«Lo siamo già. Abiamo dui fili» Mi risponde in un Italiano incerto.
Azz! Si saranno sposati bambini. Penso. La ragazza mi era sembrata molto giovane. Diciotto, diciannove anni.
Prendo confidenza, gli chiedo l’età, di dove sono, da quanti anni sono in Italia. Lui mi risponde come può; lei mantiene il suo sguardo fisso sul nulla davanti a lei.
Lui, 28 anni, lei 24. Vengono dal Bangladesh e sono in Italia da cinque, mi dice lui.
«State bene qui?» Gli chiedo retoricamente.
Domandone intelligente! Mi viene da pensare. Ovvio che ci stanno bene, sennò se ne sarebbero già andati…
Lui corruga la fronte e si sforza in un sorriso malriuscito.
«Sì…» Mi dice alzando le spalle «Abbastanza…»
Per la prima volta, lei alza la testa e mi perfora col suo sguardo. Gli occhi neri, sono tristemente espressivi. In quel momento, non sapevo ancora che una legge assurda del suo paese permette ad una minorenne di unirsi in matrimonio; ignoravo, che in base ad una loro tradizione, le famiglie combinano i matrimoni per i loro figli.
Mi fissa e senza dire una parola, mi suggerisce la vera risposta.
Un conto è fare quel che la vita t’impone; un altro, quel che ti dice il cuore.