Il rischio che correva era grande, nessuno doveva sentire. E accostato il portone con la massima attenzione, si tuffò nella notte scura.
Ettore avanzava guardingo, camminando così vicino ai muri dei palazzi da strusciarci contro. Ben presto sentì una goccia di sudore colare lungo la tempia. La tensione era massima e quel cappellino di lana era davvero insopportabile; ma necessario a coprire il colore chiaro dei capelli.
Era una bella serata primaverile, di quelle con l’aria immobile e tiepida, ma non poteva permettersi di essere visto. Non aveva lasciato nulla al caso e preso tutte le precauzioni possibili. La cuffietta di lana era nera, così come la tuta da ginnastica che aveva indosso e perfino le scarpette. La suola in gomma gli permetteva di camminare senza farsi sentire e l’unico rumore nella via deserta era quello del suo respiro e del cuore che batteva all’impazzata. In tempi di guerra c’era poco da scherzare, le autorità su questo erano state chiare e farsi trovare fuori di casa a quell’ora di sera, sarebbe stata un bel guaio.
Arrivato all’incrocio si arrestò per far capolino e guardare se poteva procedere oltre, ma ritrasse la testa con uno scatto improvviso. Un bagliore bluastro lo aveva colto di sorpresa e senza esitare tornò indietro di qualche passo per ripararsi dietro un cassonetto dell’immondizia. Poi, mettendosi fra i sacchi neri ammucchiati a lato, rimase accovacciato lì fino che non vide sfumare lontano il blu dei lampeggianti. La polizia municipale era la peggiore, non sentiva ragioni di nessun tipo.
Assicuratosi che non ci fosse più nessuno in strada, si drizzò in piedi e riprese il cammino lungo le mura dei palazzi. “Fino a quando durerà questa maledetta storia? Quanti di noi dovranno ancora morire prima che qualcuno ci salvi? E che sarà dopo?” Si domandava osservando la città spettrale. Con le vie deserte, senza macchine in movimento, senza pedoni, senza vita. Sembrava fossero tutti morti, anche se così non era. La gente c’era, ma chiusa nelle case; e chissà quanti di loro stavano dietro la finestra a spiare. Doveva fare una grande attenzione.
Intanto, sentiva sempre più caldo e la maglia intima si andava inzuppando di sudore. Ogni rumore lo faceva sobbalzare provocandogli piogge di aghi acuminati lungo la schiena. Continuava ad avanzare voltandosi ora a destra, ora a sinistra. Col capo chino e le spalle curve in avanti si muoveva rapido, ma prudente; pronto a buttarsi a terra o a nascondersi dietro una macchina parcheggiata.
La strada da percorrere era lunga, ma purtroppo tutta illuminata. La luce giallognola dei lampioni, se rendeva le cose più facili da una parte, lo esponeva al rischio di essere visto dall’altra. Per questo sceglieva i percorsi più in ombra, lontani dal bordo dei marciapiedi. “Sembra stia andando tutto bene” Si incoraggiava “Se continuo così, dovrei farcela!”
Ma d’un tratto, un mugolio straziante si fece largo nel silenzio della sera, raggelandogli il sangue. Sembrava il lamento d’un bambino.
Si fermò appiattendosi contro il muro di un palazzo, nella penombra offerta dai grandi alberi di gelso. Rimase immobile per qualche istante, trattenendo il respiro e cercando di farsi più piccolo di quello che era. Il martellare del cuore sulle tempie lo infastidiva, ma non gli impedì di sentire un nuovo lamento; ancora più forte e lancinante del primo.
Il sangue di Ettore questa volta smise di circolare, raggelandosi nelle vene. I suoi occhi azzurri come il mare della Sardegna, si sbarrarono, vetrificandosi in un attimo di sbigottimento.
Indugiò ancora qualche attimo, schiacciando la schiena contro la parete e rimanendo immobile come un geco. Doveva avere il tempo di capire cosa fosse quel lamento, da dove veniva, e soprattutto, che cosa era meglio fare. Ma non ci fu bisogno di pensare a lungo. Un nuovo prolungato mugolio, questa volta gli diede la risposta.
Un gatto grigio spuntò fuori come una saetta impazzita da dentro un cassonetto, col pelo ritto, la schiena arcuata, e le zampe rigide come stecche di legno. In un attimo fu a terra e poi sopra un albero vicino, inseguito da un suo simile di color giallastro. “Ma vaffanculo!” Sbottò, lasciando andare il fiato trattenuto fino a quel momento. “Mi avete fatto prendere un colpo!”
Sentì l’onda calda del sangue, arrivare in ogni angolo del corpo, ma solo per un attimo. Il “clac” di una serratura elettrica lo raggelò nuovamente. Sentì distintamente il cigolio del portone che si apriva e doveva essere molto vicino. Un uomo ne venne fuori con circospezione, dopo essersi guardato intorno. Aveva in mano un sacco nero, talmente grande che lo strascinava per terra.
Ettore non poté far nulla. Qualsiasi sua mossa avrebbe finito per attirare l’attenzione dell’uomo. Continuò a rimanere immobile schiacciandosi più che poteva sulla parete del muro e trattenendo il respiro. Sperava di non dare nell’occhio e di riuscire a cavarsela, ma l’uomo veniva proprio verso di lui.
Arrivato a pochi metri però si fermò e guardando ancora una volta da ambo i lati, con tutt’e due le mani sollevò il sacco e lo gettò nel cassonetto senza coperchio. Si sentì un tonfo sordo e nient’altro per un lungo momento. Liberatosi di quel peso, l’uomo si era soffermato a prendere una boccata d’aria. Guardava il cielo stellato, respirando a pieni polmoni. Poi senza indugiare oltre si affrettò a rientrare a casa, richiudendo dietro di sé il portone di legno.
“Avrà fatto a pezzi qualcuno?” Si domandava Ettore, prima di cominciare a muoversi. Attese ancora qualche secondo per essere sicuro che non ci fossero altri imprevisti, e riprese il suo cammino. Non c’era tempo per controllare cosa avesse gettato, doveva portare a termine la missione ed era anche l’unica cosa che gli importasse per davvero. Tutto il resto, faceva parte di quell’assurdo periodo che stavano vivendo. Di quella maledettissima guerra, contro un nemico sconosciuto e invisibile.
Arrivato a destinazione si fermò un attimo a guardare la piccola palazzina. Osservò con attenzione tutto ciò che aveva intorno, studiando il percorso migliore per arrivare al secondo piano. Lo stabile aveva una parte rientrata che rimaneva più in ombra e un pluviale correva proprio vicino ai balconi. Afferratolo con le mani, puntò i piedi sulla parete e prese a risalirlo. La parte gommata sul palmo dei guanti, gli facilitava la presa e in un attimo fu al secondo piano dove con un balzo si introdusse nel balcone.
La serranda era abbassata, ma dai buchi filtrava la luce e doveva fare la massima attenzione. Camminando carponi, si spostò nell’angolo più interno e da lì, scavalcata la ringhiera, effettuò la manovra più azzardata. Da un ferro che sporgeva su un lato, partiva una doppia corda che arrivava fino all’altro balcone: quello più esterno.
Poggiati i piedi di lungo su una greca sporgente, mantenendosi alla corda dello stenditoio, si mosse verso la meta. Erano solo quattro metri, ma furono i più lunghi della sua vita. Strisciava i piedi di lato, per avanzare senza perdere contatto con il bordo di cemento, mantenendo il sedere e la schiena appiccicati alla parete. Con le mani tese e la corda in pugno, si teneva in equilibrio cercando di guardare dritto davanti a lui. Da lì sopra, il marciapiedi gli appariva come un nastro grigio senz’anima, ma non aveva alcuna voglia di verificare se quell’impressione fosse corretta oppure no.
Come l’ebbe a portata di mano, afferrò il corrimano della ringhiera con tutt’e due le mani e saltò dentro l’altro balcone. In questo, la serranda era alzata a metà e dietro le tende si notava il bagliore d’una luce fioca. Mettendosi di lato alla porta-finestra, allungando la mano posò una scatolina sulla soglia di marmo e tamburellò piano sul vetro, per ritrarla rapidamente, accucciandosi a terra.
La tenda ebbe un fremito e subito dopo la porta cominciò ad aprirsi lentamente. Era un vecchio infisso in legno con le cerniere ossidate e annerite dal tempo, bisognava fare piano per non fare rumore. Nonostante la cautela si sentì distintamente la battuta inferiore strusciare sulle gibbosità del pavimento. Ettore si fece ancora più piccolo, abbracciando le ginocchia. Tutti i suoi muscoli erano contratti, le mascelle serrate, e gli occhi chiusi in una stretta deformante.
Una bimbetta di sei anni fece capolino da dietro la porta. I riccioli biondi penzolavano di lato e gli occhioni spalancati roteavano alla ricerca di qualcuno.
«Babbo, sei tu?» Chiese con un sussurro.
«Sch!» L’ammonì Ettore «Sì che sono io… Guarda a terra, prendi la scatolina e chiudi subito la porta»
«Che carino! Ti sei ricordato…» Si emozionò
«Buon compleanno! Piccola mia, ora però vai subito dentro! È pericoloso… potrebbe vederci qualcuno. E se lo sa la mamma…»
«Ti voglio bene!» Sussurrò ancora la piccola Adele
Avvicinando la mano alle labbra, Ettore le mandò un bacio. Avrebbe voluto stringerla tra le braccia, riempirla di baci veri, coccolarla come faceva un tempo; e magari poter tornare indietro per evitare di compiere certi errori.
Avrebbe anche voluto che quella che oggi tutti chiamano “guerra contro il virus” fosse più semplicemente definita come “la ricerca d’un rimedio”. Perché lui la guerra, quella vera, l’aveva conosciuta in Irak e sapeva che era un’altra cosa.
E mentre la tensione svaniva, un brivido di freddo gli corse lungo la schiena. Il cuore invece era ancora caldo, perché questo non è il racconto di una storia di guerra, ma di una delicata storia d’amore.
Antonello Bombagi ©