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Il casolare abbandonato

Quel pomeriggio un temporale estivo li sorprese durante il cammino di ritorno dal mare.

Gli altri si erano messi a correre per arrivare più in fretta alla fermata dell’autobus, ma Lalla aveva terrore dei tuoni e Toni lo sapeva.

Si infilò veloce in quel casolare vuoto e disabitato da tempo. All’esterno la natura si era riappropriata dei suoi spazi, ma non se ne preoccupò. C’era già stato altre volte e lo conosceva bene, l’avevano costruito i militari all’epoca della seconda grande guerra e sapeva che dentro era ancora in buone condizioni.

«Seguimi, qui siamo al sicuro» le urlò da lontano.

Voleva solo proteggerla e tranquillizzarla, ma una volta entrato l’idea di nascondersi per farle uno scherzo fu istintiva e immediata. Per tutto il giorno si erano rincorsi, tirando la sabbia e schizzandosi con l’acqua fredda del mare. 

L’intonaco che ricopriva le pareti interne aveva appena cominciato a sgretolarsi. Il pavimento in cemento liscio aveva qualche crepa, ma nell’insieme si presentava ancora compatto. E la copertura di legno che reggeva le tegole, anche se squarciata in qualche punto, era sufficiente ad offrire il riparo temporaneo di cui avevano bisogno. 

Qualcuno l’aveva usata di recente, in un angolo del locale principale c’erano i resti di un fuoco. Pezzi di legno carbonizzati erano ancora ammucchiati e il nero della fuliggine aveva colorato le fiancate. 

«Tanto lo so che sei qui!» Continuò a dire lei, cominciando ad avanzare sulle punte dei piedi e trattenendo il respiro, per non farsi sentire. 

Il picchiettare forte della pioggia sul tetto, le dava un grande aiuto. Copriva il crepitio dei passi sul pavimento, ricoperto da croste di fango e foglie secche piovute all’interno dagli squarci del tetto. Al contrario, il boato di un tuono la colse impreparata, pietrificandola nel bel mezzo di quel camerone oscuro e togliendole il fiato. 

«É inutile che ti nascondi… non è vero che ho paura. Stavo scherzando. Vieni fuori, dai!» Mentì un attimo dopo, con la voce che ancora tremolava.

Toni non era molto lontano. Era riuscito a nascondersi dietro la prima apertura che aveva trovato, in un locale più piccolo. Con l’orecchio teso, aveva aspettato di sentirla arrivare. 

Intanto, il rumore dell’acqua che batteva sul tetto diventava sempre più forte, l’oscurità, più profonda, e Lalla aveva smesso di parlare. Non sentiva più la sua voce né il suo respiro da un bel pezzo. Tanto meno i suoi passi felpati. 

Rimase ancora qualche istante in quella posizione di attesa. Un po’ chino, col collo rigido e le gambe semi flesse, immobile come un gatto pronto a saltare sulla sua preda. Ma qualche gocciolone caduto dal tetto gli scivolò lungo la schiena, spingendolo ad uscire da lì.

C’era da fare appena mezzo passo per venir fuori dalla piccola stanza e attraversare un sorta di andito buio, in modo da infilare il locale più grande da dove erano entrati in precedenza. E tuttavia, dopo aver girato l’angolo per tuffarsi in quel passaggio oscuro, si ritrovò a cozzare contro qualcosa che ne bloccò il cammino. 

In quello stesso momento il boato fragoroso d’un tuono riempì l’aria, subito sferzata da un urlo acuto di terrore che gli fece accapponare la pelle. 

Lei era lì a poche decine di centimetri da dove si era nascosto. E venendo fuori dal nascondiglio era andato a sbatterci contro provocandone, dopo lo spavento, la sua reazione rabbiosa. 

«Idiota! Che scherzi sono?» Inveì contro di lui, prendendo a colpirlo sul torace con i pugni chiusi, come se avesse dovuto rompere un blocco di ghiaccio con un punteruolo. 

«Lalla! Mi hai fatto prendere un accidenti!» Esclamò, dopo averla riconosciuta e circondata con le braccia per impedirle di colpirlo. 

«Sei un cretino!» Continuò a strillare, cercando di divincolarsi dalla stretta. 

«Non l’ho fatto apposta, non ti sentivo più e stavo uscendo per venire a cercarti». Si difese, cercando di tranquillizzarla. 

«Non lo fare più!» Gli intimò, raddolcendo la sua voce e smettendo di colpirlo. «Mi sono spaventata a morte». 

Nella penombra di quel luogo angusto, Toni poteva vedere solo il bianco dei suoi occhioni. 

Lo fissavano cercando protezione, ma non solo, in quello sguardo anelante che sfuggiva alla sua comprensione, c’era dell’altro. Era dolce, ma forse malizioso, muto, ma urlante di parole e significato. 

«Scusami, non volevo…». Le sussurrò confuso, continuando a tenerla chiusa fra le sue braccia e allungando il collo per darle un bacio sulla guancia, come gli era già capitato di fare altre volte. 

In quel pomeriggio, però, lei fu più svelta e con un leggero movimento del viso, dopo essersi sollevata sulle punte, andò ad intercettare le sue labbra ancora ingenue di quindicenne. Mentre le mani, dal collo, salendo su per la nuca, andarono a chiudersi, scomparendo fra i riccioli dorati. 

Il giorno dopo la rivide ancora, ma lei non lo guardò nemmeno. 

Rideva e scherzava con il  fidanzato, passeggiando mano nella mano in Corso Garibaldi. Era appena arrivato da Milano, la città in cui anche lei viveva e dove avrebbe fatto ritorno dopo qualche settimana per riabbracciare la sua vita ordinata, i suoi studi, gli amici, il conservatorio. E pazienza che a Toni di tutto questo non avesse detto nulla. 

In seguito, lui non la vide più né ebbe mai sue notizie, ma di quel pomeriggio, ancora adesso, conserva ogni ricordo.

Dall’emozione del momento, alla rabbia del giorno dopo. 

Da quell’odore inebriante di terra bagnata mescolata a profumi di elicriso, fino alle sue labbra umide e carnose. Dal calore del corpo che passava attraverso le magliette fradicie, alla morbidezza dei piccoli seni che gli si poggiavano sul petto con le punte turgide. 

Ma anche, dagli occhi grandi e luminosi di lei al suo stupore di ragazzino che fino allora aveva visto quelle cose solo nei film in bianco e nero della televisione a valvole.

E ancora oggi si chiede come si possa fingere ed essere felici allo stesso tempo.

 

Antonello Bombagi ©

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