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Osposidda, la battaglia di Grazianeddu e Miguel

Orgosolo, 17 giugno 1967.

Quel giorno nella zona di Osposidda non volavano nemmeno le farfalle.

Sembrava che una cappa di piombo si fosse posata sulla cima del monte e avesse preso pian piano a scivolare a valle inghiottendo ogni cosa, cancellando rumori, colori e vita.

In precedenza Grazianeddu e Miguel, erano stati intercettati da una pattuglia dei carabinieri e ne era nato un conflitto a fuoco. I due si erano allontanati risalendo il costone del monte fino a trovare rifugio in un anfratto roccioso che rimaneva nascosto da una macchia di vegetazione. Il giovane Miguel era spaventato, ma si fidava dell’amico.
«Tranquillo Miguel, era solo fuoco di copertura. Tutto fumo e niente arrosto» ghignò divertito Mesina «serviva a fargli credere che fossimo in tanti e a proteggere la via di fuga».
«Eh… meno male» sospirò Miguel «Ma dobbiamo fare attenzione, perché qui prima o poi, ci scappa il morto»
«Tranquillo, t’ho detto» ribadì, mettendosi in piedi. «Adesso muoviamoci però, sennò faremo tardi per la cena»

Si erano conosciuti a Sassari, dove Grazianeddu scontava una condanna a 24 anni per aver ucciso a colpi di mitra Andrea Muscau, un tale che aveva ritenuto responsabile della morte del fratello. Lui a quel tempo era già una leggenda e nel carcere sassarese ci era arrivato dopo aver collezionato diverse detenzioni, ma soprattutto un’evasione rocambolesca a Nuoro e tante altre tentate in giro per l’Italia.

Miguel, invece, era un novellino. Un giovane spagnolo con un trascorso familiare difficile da cui aveva tentato di allontanarsi arruolandosi nella legione straniera. Una scelta che si era rivelata sbagliata, tanto da indurlo a disertare, quando era di stanza in Corsica, per arrivare in Sardegna. Appena sbarcato rubò una macchina, ma fu arrestato e trasferito a San Sebastiano dove rimase folgorato dal carisma di Mesina e diventandone da quel momento la sua ombra, seguendolo e appoggiandolo in ogni sua mossa. Anche quella di evadere dal carcere sassarese scalando un muro di cinta alto sette metri per gettarsi sotto nella centrale via Roma.

Grazianeddu lo affascinava e forse incarnava il suo modello di uomo. Così diverso da suo padre, così deciso, sicuro e coraggioso, tanto da scatenare in lui un profondo senso di devota ammirazione. Quell’uomo rappresentava ciò di cui lui aveva più bisogno in quel momento della sua vita e cioè emozioni e adrenalina.

E lui non gliele aveva fatte mancare. Da quando si erano allontanati in taxi dal carcere di San Sebastiano avevano messo su una banda specializzata in sequestri di persona. Il primo era stato quello di Paolo Mossa, un proprietario terriero di Golfo Aranci, l’ultimo fu quello di Peppino Capelli, un ricco commerciante di Nuoro e anche il motivo per cui si trovavano lì quel giorno, di ritorno da un incontro con alcuni emissari della famiglia subito dopo la liberazione dell’ostaggio.

«Fa un caldo fottuto qui, peggio che da noi in Spagna…» sbuffò Miguel
«Dai muoviti» lo spronò Grazianeddu, facendosi largo fra i rovi.
Si infilò in uno stretto cunicolo che, dall’anfratto roccioso, passando sotto un fitto macchione, li portò allo scoperto. Il bagliore accecante di quel pomeriggio assolato lo investì in pieno e una vampata di calore gli attraversò il viso. Il cielo era di un azzurro terso, il sole, quello implacabile di un giorno di metà giugno, e l’aria, ferma. Non c’era vento e un silenzio surreale circondava la zona di Osposidda.

«Ma non sarà pericoloso? Non sarebbe stato meglio aspettare che facesse buio per muoversi?»
«Ajò, cagasotto. Ho già fame adesso… cosa vuoi aspettare. E se dovessimo incontrare qualcuno, lascia fare a me. Siamo in alto, noi, e abbiamo un vantaggio»
«E dove andiamo a mangiare? Da tua madre?»
«Ma sei matto, quello è il primo posto che tengono d’occhio. Non preoccuparti, ho tanti amici…» lo rassicurò, fermandosi di scatto.
Piegò la schiena per acquattarsi sulle gambe, aveva sentito qualcosa. Un rumore secco, come quello di un piede che calpesta rametti e foglie secche facendoli crepitare insieme.

«Alt! Chi va là? Fatevi riconoscere» urlò una voce dal basso
«Caz! Lo sapevo, lo sapevo… te l’avevo detto Grazià»
«Sthh…» lo zittì lui, portando l’indice sulla bocca «Carabinieri siamo, andate via!»
«E noi siamo baschi blu, venite avanti e fatevi riconoscere»

Attivi da nemmeno un anno, i baschi blu erano un reparto speciale della polizia di stato creato appositamente per combattere la piaga del banditismo in Sardegna.
A quella intimazione, seguì un silenzio che sembrò interminabile.
«Non mi fido. Chi mi dice che non siate banditi? Fatevi avanti voi per primi» gli urlò Grazianeddu rompendo quella strana quiete.
Seguì un altro momento di silenzio. Lungo, lunghissimo. Poi d’improvviso una voce nuova s’impadronì della scena.
«È una trappola, aprite il fuoco! Fuoco! Fuoco!» sbraitò come un ossesso.
Era il brigadiere Martinelli e aveva il comando di quel gruppetto di baschi blu che ebbero la sfortuna di intercettare il passaggio di Grazieneddu e Miguel sull’Osposidda. 

L’eco della sua voce sfumò soverchiato da una gragnuola di colpi di fucile a cui si alternarono brevi raffiche di mitra. Durarono pochi attimi, ma sembrarono un tempo infinito e dentro il quale per un istante si sentì galleggiare un lamento soffocato.
«Augh! Maledizione, m’hanno beccato» si allarmò Miguel, portandosi una mano sulla natica. 
Grazianeddu non disse nulla. Si limitò a controllare con la coda dell’occhio che stesse in piedi, era troppo impegnato nel conflitto. Moltiplicò le forze, sparando per dieci e lanciando bombe come se piovessero dal cielo. Fino che il silenzio si impose nuovamente su tutto. Senza preavviso, come sempre.

«Arrendetevi!» Tuonò il brigadiere.
«Sono in tanti e ben armati e in più ci dominano dall’alto, non credo che lo faranno» gli fece eco un agente.
«Sì è vero devono essere un bel gruppo»

Intanto Mesina approfittando del silenzio si avvicinò a Miguel
«Ce la fai a camminare?»
«M’hanno beccato, m’hanno beccato…» ripeteva disperato «non so se ce la faccio mi fa male tutta la gamba»
«Vieni» gli offrì il suo aiuto reggendolo con un braccio «proviamo a risalire un po’, così siamo più al sicuro e poi vediamo cosa fare»

L’odore della cordite svanì lentamente, ma non la tensione che dominava l’aria in quella battaglia che sembrava destinata a giocarsi sui nervi oltre che sui proiettili. E dopo un paio d’ore di attese in cui tutto sembrò essersi pietrificato, compreso il silenzio , Mesina udì il brigadiere Martinelli dare ordine ad un suo agente di scendere a valle per chiamare i rinforzi. Poteva essere l’ennesimo tranello per spingerli ad uscire, ma il rumore dei passi di qualcuno che si allontanava in tutta fretta, lo convinse ad assumersi il rischio.
Miguel era ferito e non c’era più tempo per stare a tergiversare. Imbracciò il mitra e spuntò fuori dai cespugli sparando all’impazzata.
In un attimo sull’Osposidda fu l’inferno.

Anche Miguel provò ad imbracciare il fucile e con un grande sforzo si affacciò alle spalle del compagno per dargli man forte.
«Agh!» soffocò ancora un urlo, stringendo i denti. 
Gli agenti avevano risposto al fuoco e lui, ormai fermo sulle gambe, era stato un bersaglio facile. Al contrario di Mesina che pareva posseduto dal demonio e saltava da un cespuglio all’altro, sparando raffiche continue e lanciando bombe a mano. 

All’alba del mattino dopo, quando il tenente Mangano salì per i pendii dell’Osposidda trovò i corpi senza vita di due agenti, Ciavola e Grassia, un terzo uomo giaceva a terra stremato, ma ancora vivo. Si trattava di Giuseppe Virgona. Qualche attimo dopo aver colpito Miguel era svenuto e non si era più mosso. Aveva finito le munizioni e vinto dallo stress, dalla paura e dalla stanchezza era piombato in una sorta di catalessi.

Di Mesina e Miguel invece non c’era più traccia se non le centinaia di bossoli sparsi per terra, fra le foglie secche sporche di sangue raggrumato. Soltanto dopo un paio di giorni il corpo senza vita dello spagnolo venne ritrovato nelle campagne di Orgosolo all’interno di un sacco di juta. Nonostante le cure di un medico prelevato a Nuoro direttamente da Grazianeddu, non ce l’aveva fatta. A differenza di Mesina che fece perdere le sue tracce. 

“L’uomo è nato per essere libero” pare fosse solito dire e con questa convinzione nell’animo scomparve nel supramonte di Orgosolo.
L’aveva scampata anche questa volta, ma di sicuro ricorda ancora bene che quel giorno sull’Osposidda… faceva caldo, molto caldo.

E non volavano nemmeno le farfalle

Antonello Bombagi © Tutti i diritti riservati

NB: La ricostruzione della” prima battaglia di Osposidda” si basa sui documenti dell’epoca che ho potuto reperire, ma i dialoghi dei protagonisti sono di pura fantasia. L’unica cosa indubitabile  rimane quella che sul monte Osposidda, in quel dannato 17 giugno del 1967, morirono in 3. Gli agenti Pietro Ciavola e Antonio Grassia da una parte e Miguel Atienza dall’altra. Chi disponesse di documenti dell’epoca o di testimonianze dirette può contattarmi in privato all’indirizzo mail antonellobombagi@gmail.com 

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