Una data simbolo per molte generazioni, ora, triste celebrazione di un lavoro che non c’è più. O almeno, così credono in tanti…
Da lungo tempo, il primo giorno del mese di Maggio, è dedicato alla festa del lavoro. Fin da bambino, l’ho sempre conosciuta e aspettata. Non perché ne capissi il suo profondo significato sociale e politico, piuttosto perché regalava un giorno di vacanza extra. Lo regalava ieri, quando ancora andavo a scuola, lo regala oggi, che sono impegnato, come tanti, a tirare “la carretta”. Lo so, non ci faccio una bella figura, ma ho sempre vissuto questa giornata, con grande leggerezza e lontano dalla molta retorica che spesso accompagna questa giornata “simbolo”.
Una giornata in cui, oggigiorno, si fanno tanti proclami, tante chiacchiere e tante disquisizioni, sull’importanza del lavoro e sul suo fondamentale valore sociale; spesso inutilmente. Come che ciascuno di noi non lo sapesse già: senza lavoro non si campa. Eppure, non è stato sempre così. C’era un tempo, in cui discutere di lavoro, aveva un senso diverso da quello odierno e uno scopo ben preciso. Si pensi che, soltanto a metà del 1800, i lavoratori non avevano alcun diritto e arrivavano a lavorare anche per sedici ore al giorno. In condizioni talmente proibitive, che spesso ne morivano.
Erano gli anni successivi alla rivoluzione industriale, quando oltre ai benefici, si iniziavano a calcolare i primi “guasti” prodotti da quel nuovo sistema di lavoro. Un fenomeno che ha causato ovunque veri e propri sconvolgimenti sociali. Per restare in Italia, è giusto ricordare quando, nella prima metà dell’ Ottocento, a seguito dello svilupparsi delle prime industrie in Piemonte e Lombardia, il resto della penisola piombò in una crisi epocale. I prodotti artigianali, non riuscivano più a competere con quelli industriali, provocando la moria di molti posti di lavoro e disoccupazione di massa. Migliaia e migliaia di Italiani, furono costretti a migrare oltre confine per cercare una nuova occupazione.
Proprio in quegli anni, a Parigi, durante il secondo congresso della Associazione Internazionale dei lavoratori, nasceva l’idea di dedicare una giornata di festa al lavoro. E non fu per nulla casuale. Il 1° maggio del 1886, infatti, uno sciopero generale indetto in tutti gli Stati Uniti ebbe un epilogo tragico e inaspettato. La manifestazione aveva l’obiettivo di protestare contro le condizioni di lavoro proibitive del tempo e ottenere la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore. La protesta, tuttavia, seppur iniziata pacificamente, crebbe d’intensità, protraendosi per 3 giorni e culminando il 4 maggio, col massacro di Haymarket. Una battaglia, divenuta emblema delle lotte operaie, per le 11 persone morte negli scontri.
Dalle ceneri di quelle tragiche giornate, nacque il 1 Maggio che oggi tutti conosciamo. Preso a simbolo comune e universale di tutti i lavoratori. Senza alcuna barriera geografica, né sociale. Un giorno di festa che, nelle intenzioni del congresso Internazionale dei lavoratori, doveva diventare un momento per affermare i propri diritti e raggiungere obiettivi utili a migliorare la propria condizione. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” fu lo slogan coniato in Australia nel 1855, e condiviso poi dalla gran parte di tutti i movimenti sindacali del primo Novecento.
Altri tempi, altre epoche. Oggi il problema vero è che il lavoro, sembra non esserci più. Soprattutto per i più giovani. In tutto il Sud-Italia, uno su due, non ha un’occupazione e sta perdendo la speranza di trovarla. Certo, rimane giusto e doveroso parlare sul tema, per ricordare, qualora ce ne fosse bisogno, di quanto sia importante nelle dinamiche sociali e di come sia fondamentale per l’equilibrio psico-fisico di ogni uomo, maschio o femmina che sia. Tuttavia, dovremmo smetterla di parlarne con retorica e credere che sia prematuramente scomparso. Il lavoro c’è; ma si è trasformato.
La tanto citata “globalizzazione” ha provocato guasti non inferiori alle varie rivoluzioni industriali che si sono susseguite nel corso degli ultimi secoli. Ma, purtroppo, dovremmo averlo capito, la storia non si può fermare. E soprattutto dovremmo aver già imparato, a questo punto, che se lui sparisce, dobbiamo crearcelo noi. Se il mercato del lavoro è cambiato, se il lavoro come l’hanno conosciuto i nostri nonni e i nostri padri, non esiste più, dovremmo farcene una ragione e provare a capire come affrontare il nuovo mondo da protagonisti, piuttosto che da vittime.
Marta, ad esempio lo ha capito. Algherese, 28 anni, si è prima diplomata all’istituto d’arte. In seguito ha conseguito la laurea in Design, alla facoltà di Architettura. Poi, è partita in Inghilterra per continuare a studiare. Ha imparato la lingua e frequentato corsi di specializzazione sulla lavorazione delle pietre preziose e sulla lavorazione dei metalli pregiati come oro e argento. Nel mentre, lavorava come cameriera in un pub, per mantenersi. Oggi, tornata ad Alghero, crea i suoi gioielli e li vende in tutto il mondo, attraverso internet. Si ha creato un lavoro e un futuro con le sue mani; con la sua intelligenza; con la sua voglia di non fermarsi a piangersi addosso.
Il vero problema di oggi è che si continua a guardare al mondo del lavoro con gli occhi di ieri. Mentre, dovremmo sforzarci di vederlo per quello che è diventato oggi e agire di conseguenza. In prima persona. Indubbiamente più facile a dirsi che a farsi, tuttavia necessario. In caso contrario, non ci rimarrebbe altro da fare, se non mutuare le usanze di alcuni indigeni africani. Quelli che per favorire la pioggia, sono soliti praticare danze propiziatorie. Si potrebbe trasformare la festa del 1 Maggio, quindi, nell’occasione buona, per un grande ballo collettivo. La Danza per il Lavoro.
Antonello Bombagi © Tutti i diritti riservati – bombagi.antonello@tiscali.it